L’Alzheimer si batte sul tempo

Si può guarire dall’Alzheimer?

Se con il termine “guarire” si intende recuperare i danni subiti facendo regredire completamente la malattia, la risposta purtroppo è no. Chi ha ricevuto una diagnosi di malattia di Alzheimer non potrà recuperare le abilità perdute. Questo è il motivo principale per il quale il fattore “tempo” diventa estremamente determinante. A differenza degli eventi traumatici (ad esempio un trauma cranico riportato a seguito di una caduta, un incidente stradale ecc..), la progressione della perdita di memoria, così come delle altre funzioni cognitive, segue un andamento progressivo e appunto ingravescente. Ne consegue che una diagnosi tempestiva può intervenire in tempi tali da rilevare minimi segni di decadimento e ciò permette di avere dei buoni margini per poter promuovere efficaci terapie riabilitative al paziente, consentendogli di rallentare il decorso della patologia e mantenere il più a lungo possibile le proprie autonomie.

Qual è il momento migliore per intervenire?

Indubbiamente il “momento migliore” sarebbe quello di cercare di mantenere il cervello allenato a prescindere dagli eventuali sviluppi degenerativi. Un po’ come fare ginnastica in assenza di problematiche muscolo-scheletriche, così l’attività di allenamento sarebbe una buona pratica a partire dai 65 anni di età. Detto questo, quando iniziano i primi screzi sulla memoria o magari in altre abilità (avere la parola sulla punta della lingua, non riuscire a trovare il nome esatto per gli oggetti, cose o persone, non ricordare le procedure della torta di mele che fino a poco tempo fa era il nostro cavallo di battaglia, ecc..), sarebbe utile verificare il proprio stato cognitivo attraverso l’esame neuropsicologico. In caso di diagnosi di MCI (Mild Cognitive Impairment), è opportuno iniziare le attività di supporto e potenziamento. Le variabili del trattamento sono lasciate al Clinico che deve saper interpretare e gestire il “fattore tempo” in modo appropriato.

E quando la diagnosi arriva troppo tardi?

La compromissione delle abilità cognitive rende la persona sempre meno autonoma nelle sue attività quotidiane, difficilmente può essere lasciato solo in casa e altrettanto difficilmente può interagire con consapevolezza nella vita domestica e familiare. Tutto questo rende la persona un “peso” per tutta la famiglia, un “peso” s’intende dal lato emotivo, la persona che abbiamo avuto accanto per anni, con la stessa faccia, gli stessi occhi, la stessa voce, non è “più quella che era prima”, il compagno/a di cui conosciamo pregi e difetti adesso non ha più gli stessi gusti, le stesse abitudini. Spesso la persona originariamente aperta e socievole, diventa scontrosa, irascibile e tende all’isolamento, oppure chi è sempre stato particolarmente introverso può manifestare disinibizione sia con atteggiamenti, parole ma anche azioni. La persona mansueta può diventare aggressiva, insomma le variazioni comportamentali rendono ancora più difficile la gestione di una persona malata di Alzheimer. Nonostante queste alterazioni comportamentali e la perdita di molte delle abilità cognitive, un certo tipo di intervento riabilitativo può ancora essere strutturato, anche se ovviamente, più passa il tempo e più questo sarà indirizzato al mantenimento delle attività di base come riuscire ad andare in bagno da solo, alzarsi dal letto o dalla poltrona, essere autonomo nel mangiare e nel vestire, ma anche conservare l’autonomia nel “chiedere aiuto”, che sembra una banalità ma non lo è! Spesso le “spine” sono dolori molto intensi che segnalano bisogni importanti talvolta essenziali per l’organismo, ma che non riescono ad essere riferiti dal paziente, e quindi curati, rendendolo ancora più vulnerabile, irrequieto e sofferente.

Cosa e come fare per aiutare la persona con Alzheimer?

Il come aiutare è strettamente legato a “cosa” e qui torniamo all’importanza di una corretta diagnosi. I disordini cognitivi non coinvolgono tutti le stesse aree, quantomeno nelle fasi iniziali della malattia, di conseguenza anche i modi per aiutare cambiano. Molto importante in questa fase sono gli interventi farmacologici, che spesso vengono “condivisi” in maniera troppo generica rendendo il trattamento aspecifico e non del tutto efficace. Estremamente utile il supporto specialistico di tipo neurologico e/o psichiatrico. Conoscere la patologia nel dettaglio non serve tanto per dare un nome, ma serve per cerare di essere più recisi possibile nelle metodologie da applicare.

Dia.Ri. non si prende cura solo del paziente Alzheimer, ma di tutte le patologie che sono legate ai disordini cognitivi, siano essi dovuti a patologie degenerative come le Demenze, la cui forma più diffusa è proprio l’Alzheimer, ma anche al PD-D, la Demenza che può subentrare in pazienti con malattia di Parkinson, così come altre forme dementigene (Demenza Vascolare, Fronto-Temporale ecc..), ma abbiamo pazienti anche con lesioni cerebrali di tipo traumatico (trauma cranico, ictus, ecc..) e di natura secondaria a trattamenti farmacologici e/o chemioterapici, ma anche post-Covid.

La nostra attività iniziata molto tempo prima in ambito pubblico ed è continuata in ambito privato dal 2017 ad oggi. Siamo il primo centro in Toscana Accreditato dalla Regione per la neuropsicologia adulti. Adesso siamo in grado di applicare metodiche di trattamento altamente specifiche per ciascun tipo di patologia tra quelle su elencate, sia in termini tradizionali sia innovativi (come l’utilizzo della Realtà Virtuale), proprio perché è fondamentale non trattare il “decadimento cognitivo” in senso generale ma “quel tipo di decadimento” e creare un progetto riabilitativo ad hoc per ciascun paziente, a seconda della sua storia clinica e dei suoi bisogni. Il nostro obiettivo da sempre è la qualità di vita che non potrà mai essere associata ad uno “standard predefinito”.